Search

QUELLA SPOSA IN RITARDO

210

“Ho notato che hai i piedi piatti”

Disse così mio padre, tornando a casa da una partita.

“Ho trovato un medico. Un esperto. Scrive su Correre, una rivista di podismo. Andiamo a fare una visita. È a Milano, zona San Siro”.

Quella fu la prima volta che vidi San Siro. Un’astronave nella nebbia. Rimasi senza parole. Avevo undici o dodici anni. Erano i tempi in cui giravamo con un’Alfa Romeo Station Wagon rossa, lunga come la Ecto-1 dei Ghostbuster e nell’Inter giocavano elementi come Centofanti e Paganin mentre gli altri vincevano scudetti e Coppe dei Campioni. Il medico sembrava davvero esperto. Avrebbe raddrizzato i miei ferri da stiro per camminare meglio, non certo per fare più cross. Disegnò dei trattini neri col pennarello sui tendini d’Achille e mi fece camminare su un tapis roulant. Registrò con una piccola telecamera e rivedemmo il video insieme. Era un qualcosa di futuristico rispetto a Novara e i campetti in cui giocavo alla domenica. Concluse che i miei piedi piatti a papera erano dovuti alla mancanza dell’incavo sulle piante. Così strinsi due maniglioni e spinsi verso il basso una pedana rossa con tutta la forza che avevo in corpo. Le impronte che lasciai presto si solidificarono. La resina di quei plantari era dura più o meno come il mogano. Facevano un male della madonna. Dovevo strappare le solette delle scarpe e sostituirle con quei plantari. Quel fastidio si aggiunse all’apparecchio ai denti. Più o meno come quello di Lamine Yamal, ma con gli elastici. Le mie scuole medie sono state così: plantari ai piedi e ferraglia sui denti. E un male cane ogni volta che cambiavo plantari e gli elastici dell’apparecchio.

Però potevo vedere San Siro ogni tanto. E questo mi bastava.

Ieri sera non l’ho detto a nessuno che sarei andato allo stadio. Tranne a mio padre. Lui si sarebbe ricordato persino dov’era lo studio di quel medico. Memoria da elefante. Non l’ho detto a nessuno perché volevo viverla intimamente ed evitare messaggi idioti di qualche gufo.

Morso dalla tensione sono partito verso le quattro del pomeriggio.

“Ma vai già?” – mi ha detto mia moglie.

“Hai idea del traffico che troverò?”

Non era vero. Non c’era nessuno. Ma lei non lo sa. O lo scoprirà adesso. Ho parcheggiato al solito posto, accanto al parco, di fronte all’ingresso di quella discoteca di cui non ricordo mai il nome. Ho controllato di aver chiuso la macchina più o meno dieci volte. Poi ha iniziato a piovere e mi sono incamminato ripensando a quindici anni fa, alla stessa semifinale col Barca. Sempre solo, in piccionaia, al terzo anello rosso. Ma non m’importava. Bastava esserci. ESSERCI DA PROTAGONISTI come c’è scritto sulla sciarpetta che mi ha regalato mio padre. Esserci come ieri.

Ho camminato lento verso l’astronave, guardavo sconosciuti con qualcosa di nerazzurro addosso e li sentivo vicino anche senza sapere niente di loro.

Perché il tifo è quella roba lì. È quella cosa che ti fa sentire parte di una comunità.

Facendo il perimetro dello stadio ho ripensato al 27 agosto 1995, la prima volta dentro l’astronave. Inter – Vicenza 1-0, bomba di Roberto Carlos su punizione. Ce ne sono state altre memorabili col mio vecchio. Una su tutte, forse, la prima di Ronaldo contro il Brescia. Oppure la rovesciata di Djorkaeff contro la Roma. Apparecchio e plantari li avevo già tolti. Nel frattempo, avevo raddrizzato anche i denti ma continuavo a crossare male. E a ricevere tante sfottute a scuola a causa dell’Inter. Ho cominciato a godere molto più tardi. Persino più tardi di quando ho cominciato a godere per le ragazze.

Perché l’Inter è quella roba lì. È quella sposa in ritardo che non ti stanchi di aspettare.

Terminato il giro ho preso da bere. Guardavo la gente felice, attraversata dalla febbrile attesa dell’evento. Ho cercato di memorizzare ogni diapositiva mentre per la tensione mi girava la testa con una sola birra in corpo.

A quel punto non sapevo che fare. Mancavano più di due ore. Entrare? Mangiare i panini come il pranzo al sacco di un bambino sfigato in gita? Curiosare al Baretto per vivere ancor più interismo?

Ho scelto di aspettare il pullman dei giocatori. Un pullman coi vetri oscurati da cui è impossibile vederli e da cui è impossibile che loro vedano te, in mezzo a migliaia di sciarpe e fumogeni. È una cosa che non ha alcun senso.

Ma il tifo è quella roba lì. È quella cosa che ti fa comportare come quando a godere per le ragazze non ci pensavi nemmeno.

Dopo aver varcato il cancello ho percorso le rampe della torre con la lentezza di una processione. Ripensavo ai miei anni di abbonamento, a “tutti quei chilometri che ho fatto per te”, perché anche se vengo da Novara, se li metto tutti in fila arrivo minimo in Sudafrica. Guardavo il piazzale, i tifosi del Barca entrare, gridare “Inter vaffanculo”. Ho riposto sventolando la mia sciarpa e mandando bacetti ironici.

Perché il tifo è quella roba lì. È quella cosa che ti fa sentire importante anche se sei un puntino nell’universo. E ti fa sentire responsabile anche se non conti niente. Perché all’Inter, se fossi andato o meno allo stadio, non sarebbe cambiato un cazzo. Ma a me sì.

Mentre aspettavo il fischio d’inizio per fortuna non mi ha scritto nessuno. A parte la mia famiglia. E ho ripensato a quelle sciarpe con scritto DI PADRE IN FIGLIO anche se l’epicentro sono io. Mi rendo conto di essere la vibrazione che scuote la vita di chi mi sta vicino per un derby vinto o un 5 maggio. È per colpa mia se mia madre adesso parla solo di Sommer.

Ieri sera non sono riuscito ad esultare ad ogni gol. Non l’ho fatto per la paura del Var, degli avversari, di Lamine Yamal e per la paura che tutto potesse finire male. Perché l’Inter è un viaggio senza biglietto. Un continuo autostop. Non sai con chi viaggerai e quanto resterai in un posto. Alla sera un tramonto di rose e al mattino un diluvio. Vai a dormire in una suite e ti svegli in un ostello.

Perché il tifo, anzi no, perché l’Inter è quella roba lì. È quella cosa che ti rovina la vita quando sta andando tutto bene e ti svolta le giornate quando tutto sta andando a puttane.

Poi è finita che non volevo più uscire. Sono sceso dalle rampe con la stessa lentezza, guardando i fanali delle auto all’orizzonte e i tifosi pogare sotto di me. Avrei voluto buttarmi in mezzo a loro. Ma non avevo nessuno da abbracciare. Sarei rimasto fino all’alba in quel piazzale ma a questa età c’è una sveglia alle sei e un bambino a casa.

Così ho comprato una sciarpa perché “Se vinciamo mi compro una sciarpa invernale che non ce l’ho, cazzo. Ma solo se vinciamo” mi son detto. Ho preso una birra che si è annacquata di pioggia. Sapeva di pace dei sensi. Eppure guidando ho sentito qualcosa di inesploso. Come se non mi fossi liberato del tutto. Come se non avessi goduto fino in fondo.

Avevo appena assistito a Italia – Germania 4-3, avevo visto Rocky contro Apollo Creed ma reale. Ma c’era un cazzo di uovo sodo alla bocca dell’esofago anche stamattina. E non andava né su né giù.

Fino a poco fa. Quado ho riascoltato la radiocronaca di Francesco Repice. E ho pianto. E mi sono liberato. E tutto è andato a posto.

E so anche perché.

Perché l’Inter è quella roba lì. È quella cosa che ti fa sentire ancora i piedi piatti anche se i plantari li hai tolti trent’anni fa.

“Questa non è una partita. Questa è un’opera d’arte. Questo è un dipinto”

(Francesco Repice, Milano 6 maggio 2025)




Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.