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ARRIVEDERCI AMORE, CIAO

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Ciro mi versa un bicchiere di amarone. I pizzoccheri di Andrea fumano sotto i nostri occhi. Non pensavo fosse un cuoco così abile. Isabella intanto distrae la bimba. E’ troppo piccola per assaggiarli. Le luci delle case riscaldano l’inverno. E’ un po’ di tempo che non ci vediamo e non ci vedremo per un po’. Al centro della tavola il gorgonzola e il salame lo abbiamo portato io e Cinzia. Sapori che il mio amico tarantino non conosceva. Facciamo un brindisi e prima di iniziare la cena, prima di aggiornarmi sul lavoro o su come trascorrerà le feste, prima di qualsiasi altra cosa dice: “Kakà ha annunciato il ritiro”.  E mi riporta indietro di dieci anni, quando in un bilocale preparavamo la tesi.
Lo dice con l’amarezza del tifoso presente a Manchester, a Istanbul e che alla fine è andato a prendesi la rivincita in Grecia. Lo dice col dolore del tifoso che vede calare il sipario davanti all’ultimo dei romantici. Mentre Gattuso allena Kalinic e Maldini compare senza ruolo a San Siro, mentre Superpippo ricomincia da Venezia e Pirlo annuncia il ritiro dagli States. Se ne va l’ultimo di quella squadra. Lo dice con lo sguardo vuoto e la mente affogata nei ricordi.
Ogni tifoso ha la sua diapositiva di Kakà, milanista o meno che sia. Anch’io, da eterno avversario, ho il mio. Un gol poco conclamato che ne riassume la biografia.
Marzo 2007. Ottavi di Champions. Il Milan fatica ad avere la meglio sul Celtic. A Glasgow è finita 0-0. Gli scozzesi sono saliti sulla Delorean volante e difendono giocando un calcio trapassato. Concedono poco al Diavolo e lo portano nervosamente ai supplementari. Nella selva di gambe arrancate c’è un ragazzo tranquillo. Quello col 22 e la faccia pulita da mormone. Denti bianchi perfettamente allineati, morbidi capelli neri. Dolcevita e guance paffute. E dopo tre minuti predica il suo verbo. Un’altra volta e per sempre. Riceve palla a centrocampo da Ambrosini, tiene a distanza capitan Lennon con gesto da cowboy. Levati! E s’invola. La falcata è leggera sul campo allentato. Dritto, senza inutili arabeschi verso l’area. Perché Kakà seguiva la via più breve. E nel calcio non è sempre la più facile. McManus lo porta invano all’esterno, sul lato debole, il sinistro. Ma in quel momento Kakà non ha punti deboli. Sposta leggermente la palla e trafigge Boruc sotto le gambe. Lucido, preciso. Dopo un’ora e mezza abbondante di botte e spintoni. E’ così veloce che cadendo sul prato scivola per due metri sulle ginocchia per poi rialzarsi sorridente.
E’ un gol che appartiene al dio invocato nelle sue magliette I belong to Jesus e nelle esultanze con gli indici rivolti al cielo. E’ un gol che appartiene ai tifosi che lo vedranno giganteggiare a Manchester in semifinale e prendersi sontuoso la coppa contro il Liverpool. Ma è un gol che appartiene a tutti gli amanti del gioco. E’ un gol che lo consacra ultimo terrestre a vincere il Pallone d’oro prima del dominio alieno di Messi e Cristiano Ronaldo.
E’ il gol di un tempo che non tornerà più. Il gol di un tempo che i milanisti pensano di rivivere quando torna dal Real Madrid. Ma è rallentato, normalizzato. Senza un perché.
Cercavo in te le tenerezze che non ho, la comprensione che non so trovare in questo mondo stupido. Quella persona non sei più. Quella persona non sei tu cantava Caterina Caselli. Ma c’è troppa gratitudine nella gente per fischiare il figliol prodigo alla ricerca di sé stesso.
Non è stato un falso nueve, né una prima punta. Non è stato un attaccante esterno, né un regista. Non è stato una di queste cose. E’ stato tutte queste cose insieme, mentre gli esperti cercavano di inquadrarlo in una definizione ancora da scrivere. Come quella fuga contro il Celtic.
Bastò poco per affezionarsi alla semplicità delle sue giocate. E’ stato una successione di colpi primari, una faticosa ricerca all’essenziale. Come quando quel ricco commissionò un’opera a Picasso e il pittore lo accontentò con uno schizzo. “Non vale, ci ha messo cinque minuti” – obiettò quello. “Cinque minuti più tutta la vita” – rispose Picasso. Quanta vita c’è voluta per realizzare quella corsa contro il Celtic. Una strada percorsa senza palloni di stracci. A dimostrare che anche i normali possono scrivere un’epica.
Ci manca già. Manca il naso all’insù a ringraziare per un gol o a cercare una riposta. Per ora l’ha trovata inseguendo la carriera da dirigente. E il giorno dopo il derby penso che non faceva così male perderlo contro di lui.
Non mi resta che aggrapparmi a quel gol ogni volta che ne avrò voglia. Arrivederci amore, ciao.

Le nubi sono già più in là.
Finisce qua.
Chi se ne va che male fa?

(Insieme a te non ci sto più – Caterina Caselli, 1968)




One thought on “ARRIVEDERCI AMORE, CIAO

  1. Giovanni Cassanello

    Lo leggo solo oggi Sergio e me ne pento.
    Hai scritto da interista esattamente quello che penso io da milanista sul bambino d’oro. Bravissimo

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