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ERA L’ANNO DEI MONDIALI

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Giugno. Il mese dei mondiali. Il mese in cui fermi la tua vita programmandola sul calendario delle partite. Tutto si deve adattare a quel calendario: incontri, cene, matrimoni, battesimi, riunioni. Non esiste altro. Non è una consuetudine: è un rituale. E’ sempre stato così. E pensavi che sarebbe sempre stato così. Giugno 2018. Quest’anno non è così. E’ la prima volta che succede. E’ una sensazione strana, quasi irreale. Giugno è ancora lontano, eppure incombe perché sarà un giugno diverso, un giugno da reinventare dal nulla: senza la ricerca degli avversari più abbordabili, senza il calcolo dei possibili incroci. Senza. Ecco sarà un giugno senza, un giugno freddo, distaccato, che vedrà scorrere il calendario dei mondiale come uno dei tanti fatti di cronaca sportiva che riempiono le ferie e il periodo estivo. Un mondo degli altri che non ci appartiene e non fa parte della nostra vita. Il senso di vuoto comincia a opprimerti e non riesci a guardare davanti. Istintivamente ti rifugi nei ricordi quando giugno era il mese dei mondiali. Certo, i primi ricordi che affiorano sono quelli del 2006, lo stadio di Berlino bloccato sullo sguardo di Grosso pronto a tirare il rigore. Certo, nel 2006 il mondiale lo abbiamo vinto ma in fondo, per quelli come me, quel mondiale si era concluso in semifinale, dove la Germania si era trovata inebetita e confusa ad osservare i lampi del magico sinistro di Grosso e la fuga frenetica di Del Piero. Dopo essersi schiantata sul piccolo uomo che riempiva i polmoni del commentatore: “Cannavaro! Cannavaro!” e ogni suo colpo ci sferzava e dimostrava, ancora una volta, che i tedeschi nel calcio vincono sempre solo se non ci siamo noi. Al fischio finale mi sono trovato seduto, distrutto su una sedia ad osservare la fila vuota dietro me. I tedeschi erano andati via. Il loro mondiale era finito e in fondo era finito anche il nostro. La finale aveva vissuto qualche sussulto solo all’inizio, poi non era stato altro che lo scorrere nervoso di due squadre stanche che si avvicinavano lentamente verso un destino ineluttabile. I titoli di coda ci hanno mostrato la rabbia di Zidane esplosa sul petto di Materazzi e la palla del francese con l’accento argentino che si stampava sulla traversa. l’Italia di nuovo sul tetto del mondo.
Ma i mondiali dell’82 raccontano un’altra storia. E’ la storia di un mondiale che cominciò quando tutto era finito: precipitati nel girone di ferro con l’Argentina, campione del mondo, e il Brasile degli dei. Ci presentammo in quel girone infernale senza alcuna speranza e salutammo increduli la vittoria sull’Argentina contenti di tornare a casa con una sola vittoria, ma di prestigio. E’ il 5 luglio, il Brasile si presenta dopo aver passeggiato con l’Argentina. Nessuno ci crede veramente, ma non puoi non guardare Italia-Brasile. I tuoi occhi vedono Rossi incornare l’1 a 0. Non puoi non saltare di gioia. Il mio pensiero fu il pensiero di tutti: se riusciamo a difenderci è fatta. Ma loro sono la squadra degli dei e gli bastano 5 minuti per mettere le cose a posto. Ti rimetti tranquillo a vedere la partita- “Vabbé dai, gli abbiamo messo paura”. E li vedi danzare con il pallone, Socrates, Zico, Falcao, Cerezo. Quasi ti vergogni di aver pensato di poter vincere. Ma i mondiali dell’82 raccontano la storia di una squadra che non voleva perdere neanche contro gli dei e aveva troppe cose da dimostrare. Il Brasile danza, Rossi scatta, ruba palla e segna. Il fiato ti esce più forte di prima. Qualcosa si insinua dentro di te. Abbiamo segnato ancora. Magari questa volta…
I minuti passano, il primo tempo finisce. Il Brasile continua a danzare, ma non segna. I minuti passano, la sofferenza cresce. Ormai la palla viaggia continuamente vicino la nostra area. Tu soffri. Tutta l’Italia adesso non può far altro che soffrire e cominciare a sognare. Poi all’improvviso si apre uno squarcio nella difesa, il pallone è in rete, gli dei hanno cancellato il nostro sogno. Ma uno squarcio si apre anche nell’Olimpo: un calcio d’angolo, il nostro unico calcio d’angolo, e Rossi spunta per l’ennesima volta. Siamo avanti. Siamo avanti. Resistere, resistere, resistere. Non c’è pietà per chi soffre. Il gol di Antognoni viene annullato e bisogna stare lì senza fiato a soffrire fino al novantesimo più uno. Al fischio finale non esce nessun grido, non hai più fiato, sei stanco, distrutto. In fondo l’hai giocata anche tu questa partita e ti ritrovi esausto sulla poltrona che abbracci forte perché ora sei sicuro che quella poltrona ti farà vincere il mondiale. Italia – Brasile cominciata per rendere omaggio alla squadra degli dei finisce scoprendo che quell’Italia derisa e sbeffeggiata è la più forte di tutti e si appresta a vincere il mondiale. La semifinale è solo una formalità ma la finale no. Abbiamo sconfitto la squadra degli dei ma l’irriducibile Germania, che ha scalato l’inferno nei supplementari contro la Francia, è sempre lì e noi abbiamo perso Antognoni. E così il mondiale dell’82 racconta la storia della finale giocata da una squadra di mediani e difensori capaci di schiacciare la Germania senza alcuna incertezza, senza la necessità di segnare un rigore. Racconta la storia di Oriali tartassato di falli per tutta la partita, racconta la storia di un ragazzo quasi esordiente di 18 anni con la faccia da zio catapultato a contrastare gli dei del calcio e pronto a vivere con la calma di un veterano la finale annullando Rummenigge. Racconta la storia di un urlo che io, come tutti gli italiani, videro soltanto dopo, molto dopo, perché quando la palla di Tardelli entrò in rete il viso si alzò verso il cielo gridando il sogno che non ci saremmo mai aspettati di vivere. Un urlo fatto di una sola parola: “goool”. L’urlo di tutti quelli che sognano il loro momento di gloria, l’urlo di chi senza capire il perché si trova imprigionato a inseguire un pallone cercando il senso della sua vita. L’urlo che, per tutti quelli della mia età, rappresenta il calcio, senza balletti, senza segni, senza storie. Si gioca per il gol, si vive per il gol, si soffre per il gol. Quello che hai dentro è solo il gol. Non importa se sei difensore, centrocampista o attaccante. Se giochi, sogni solo quel momento: gridare “goool”. E’ la storia di una squadra fatta da un portiere, che urlava solo in campo, perché fuori il suo pensiero lo potevi leggere nei suoi occhi. Un portiere che si buttava solo quando il pallone sbucava all’improvviso o veniva deviato. Perché il vero portiere sa dove arriva il pallone. I tuffi si fanno in piscina, non sul campo di calcio. Il portiere è una persona seria: sa dove deve stare. Quel portiere, il 5 luglio dell’82 fermò il respiro di tutta l’Italia perché dovette buttarsi e fermare sulla linea quel pallone. Perché anche i grandi sbagliano ma sanno rimediare: per questo non esultò ma ci guardò e ci fece capire che il vero portiere è quello che ha le mani ferme e blocca il pallone. Lui è stato un vero portiere e le sue mani bloccarono quel pallone e il nostro respiro. La faccia affranta e disperata di Stielike mentre il volto incredulo di Spillo sancisce il nostro trionfo. Poi l’attesa spasmodica attaccato alla poltrona aspettando quello che nessuno aveva mai osato sognare 20 giorni prima: “Campioni del mondo, campioni del mondo, campioni del mondo”.
Chi sta vicino ai 50, o li ha passati, ricorda sicuramente la notte di Berlino ma l’anno dei mondiali rimarrà per sempre l’82. Per me, come dice Ligabue, credo che l’Italia un giorno riuscirà di nuovo a vincere un mondiale, nonostante tutto. Ma credo anche che un mondiale bello come quello del 1982 non ci sarà mai più. Quello sarà sempre il mio mondiale e il mondiale della mia giovinezza.

vissuto e raccontato da Massimo Della Camera




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