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HO VISTO MARADONA

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Da un lato del muretto c’è Gianni Minà, con la camicia sudata e gli occhiali quadrati che scivolano sul naso. Il giornalista amico, l’amante del sudamerica, incubatore di domande mai banali. Dall’altro c’è Diego Armando Maradona. Dietro di loro il golfo di Napoli e il sole che si specchia nel mare. Ci sono un giornalista e un’icona pop, nel senso etimologico del termine. Nel senso di popolare, della gente e per la gente.

In mezzo a loro c’è una domanda che parte dalle labbra di Minà e arriva dritta al cervello del Pibe. O forse, vista la risposta, arriva dritta al cuore.

“Diego non ti dà fastidio che la gente si arricchisca col tuo nome?”

Maradona ci pensa, ma giusto un attimo. Indossa pantaloni azzurri troppo stretti per i suoi quadricipiti e una maglietta bianca. Arriccia la bocca.

“No. Io non voglio che il ricco diventi più ricco. Ma se il povero, se quello che non ha niente…”

“Quello che si inventa la vita” – lo interrompe Minà.

“Sì, se quello che s’inventa la vita usa la faccia di Maradona per guadagnarsi qualcosa non c’è problema”.

È tutto qui Maradona. In questo sesto senso di tristezza collettiva. In questa perdita del condominio di anime che abita tutti noi e che lui ha avuto il coraggio di mostrare. Nella perdita dell’uomo più che dell’atleta. Perché l’atleta smette prima o poi ma l’uomo resta, pur con la sua vita discussa e discutibile. Una vita insostenibile per chiunque. La tristezza della sera sta nella fine della favola del povero che diventa ricco ma disprezza i ricchi. Nel piccolo che sfida i grandi. Nel sud che batte il nord.

“Abitavo sotto di lui, spesso partiva con il bolide a notte inoltrata per chissà dove. Poteva farlo, era Maradona”. È Ciro Ferrara a dirlo, suo vicino di casa. Un asceta della fascia, un ragazzo privo di vizi. È l’ammirazione che parla, quella per un uomo che ha mancato di rispetto a tutti tranne che ai suoi compagni.

“A Maradona non ho mai portato il caffè a letto ma l’avrei fatto se me l’avesse chiesto. In quattro anni e mezzo non l’ho mai sentito rimproverare un compagno. Sapete quanti mediocri lo fanno in ogni squadra?”. Questo invece è Ottavio Bianchi, suo ex allenatore, consapevole di dovergli molto di più di una colazione a letto.

“Quando veniva all’allenamento, Maradona era eccezionale. Il problema è che non veniva mai”. E questo è Bigon.

Chissà se si fosse allenato.

Maradona è stato la prima industria del calcio. L’uomo che la Fifa aveva rimesso in piedi per vendere il calcio in America per poi farlo fuori quando stava rovinando i piani. Efedrina si disse. Doveva vincere qualcun altro. Non lui, non quello che gli stessi americani avevano chiesto di vedere dal vivo: “Ma quello basso e grasso, dov’è?”.

“Nel calcio c’è gente che fa schifo” – aveva detto di Blatter e Havelange. No, non poteva vincere lui.

“Che cosa hai imparato alla tua età?”. La domanda, acuta quasi quanto quelle di Minà, stavolta è Fabio Fazio a fargliela, nel suo salotto domenicale. Diego è magro, ben oltre i cinquant’anni, riscostruito fisicamente dal bisturi e mentalmente da qualche clinica. Ci pensa un attimo, fa la stessa smorfia di quella volta sul muretto vestito in tuta. Adesso, nel suo bel completo grigio lucido, risponde: “Che gli americani non sono i poliziotti del mondo come pensano”.

Questo è Maradona, prendere o lasciare. Il tossico e il risorto. Ma sempre con la stessa verità.

Ai detrattori, a quelli che sostengono che pippasse cocaina e andasse a puttane, chiederei se hanno mai marcato un attaccante di Seconda Categoria con una bottiglia di vino in corpo. Lo chiederei perché io l’ho fatto. E vi assicuro che no, non si può fare in maniera dignitosa.

Diego è l’uomo che ha perso il 30% della mobilità della caviglia sinistra nella corrida contro Goikoetxea. E se avesse mantenuto il 100% mi chiedo? O lo chiedo ai detrattori.

È l’uomo a cui hanno dedicato la chiesa Maradoniana, quella che conta gli anni dalla sua data di nascita. Un suo capello, custodito nel tabernacolo di un vicolo, è fra le dieci cose da visitare a Napoli secondo Lonely Planet.

Se ne va, o forse si sposta ai piani più alti, il dibattito su chi sia stato il più grande.

Maradona ha segnato il gol più disonesto della storia e un quarto d’ora dopo quello più bello.

“Cosa risponde a Shilton che non l’ha invitata alla sua partita d’addio per via di quel gol di mano?” – chiese un giornalista.

“Di riguardarsi il secondo gol”. Ecco una domanda stupida, una di quelle che Minà non avrebbe mai fatto.

Il gol più bello però, quello da consacrare nell’iperuranio, è la punizione a due contro la Juventus. Lo schiaffo al potere.

“Diego ma la barriera è troppo vicina” – gli disse Bruscolotti protestando con l’arbitro.

“Fa niente. Lascia stare. Tanto gli faccio gol comunque”.

Stasera il barrilete cosmico è volato più in alto dei murales che lo ritraggono. Si sono consumati i VHS con le sue gesta e le mie diottrie a furia di riguardarle.

È stato un argentino trapiantato a Napoli o un napoletano nato a Buenos Aires.

È un ragazzo che palleggia col mondo e un fantasista che balla Life is Life mentre i compagni si riscaldano.

Non esiste uomo sulla Terra, dall’Alaska a Tonga, che non conosca Maradona. E basta così.

È la Campbell Soup di Andy Wharol. È di tutti e nessuno. Ed è il cammino di Santiago, affascinante e proibitivo. È arte e fatica. L’arte del suo sinistro e la fatica di sopportare un talento così grande.

È una maglia di lana spessa che danza sul fango e un bambino che costringe una troupe televisiva a infrattarsi fra la baraccopoli di Buenos Aires per vederlo palleggiare.

Si dice che un uomo muoia veramente quando muore l’ultima persona che lo ricorda. Se è vero, allora è destinato a vivere per sempre.

Ha ispirato cantanti, registi, poeti. Ha incantato i letterati e fatto sognare gli ultimi, quelli che hanno legato al suo faccione vendetta e riscatto.

Mi chiedo da dove provenga questa tristezza inconsolabile, da quale anima del mio condominio. Forse da quel cortile che ho lasciato per sempre. Quel cortile dove i bambini di quarant’anni si sfidavano con un cappellino con le treccine e una parrucca cotona.

“Facciamo che io sono Gullit e tu sei Maradona”

Sì, viene da lì questo vuoto interiore. Dalla fine di un’epoca.

Ma almeno noi l’abbiamo vissuta.

Noi che abbiamo visto Maradona.




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