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IN SALSA DI SOIA

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Non ho niente contro la Cina. O quasi. Per esempio mi piace la cucina cinese. A dire il vero amo tutto il cibo etnico. Il mio preferito è l’eritreo, forse per la convivialità con la quale si mangia lo zighinì tutti dallo stesso piatto con le mani.
Mi ricordo che una sera ci servì la figlia del proprietario, una ragazza parecchio in carne, jeans, camicia a quadretti, un viso bellissimo e un cespuglio indistricabile di capelli. Si presentò allargando le braccia: “Eccomi qua, menù interattivo!”. Non le avrei tolto un solo chilo.

Ma non è questo il punto.

Mia madre mi allunga i piattini: “Questo è un esperimento. Formaggio di capra con una marmellata d’arancia comprata in Sardegna”.
“Buono l’accostamento. Davvero buono”. Abito a due isolati dai miei eppure li vedo poco. Meno di quanto dovrei e di quanto vorrei.
“Sì ma cosa c’è di secondo? Mi devo regolare”. I chili presi quest’estate avvicinano il mio addome a una curva inaccettabile. Inaccettabile per me sia chiaro, mica per la società.
“Ravioli di magro, li ho presi dalla panettiera”.
“Di secondo?”
“Niente”
“Carica con il formaggio allora”.

Non vedo bottiglie di vino sul tavolo. Scena rara, rarissima da quando mio padre, per distrarsi dalla distanza che lo separa dalla pensione, ha conseguito la licenza di sommelier.
“Meglio così” – penso – “oggi non allarghiamo la curva dell’addome”.

Snocciolati i preamboli sul tempo, il lavoro, le vacanze e le spese condominiali, arriva il momento del caffè. Domani, come da tradizione, arrivano dodici animali per l’asta del fantacalcio, sono stanco e dopo mi tocca pulire o almeno passare l’aspirapolvere. Il bagno no, sarebbe inutile, lo lascio così.
Le palpebre tendono a chiudersi ma non per la digestione, è colpa della settimana alle spalle.

“Ne metto su un altro allora”.
“Sì, grazie”.
Mia mia madre non beve caffè né tantomeno lo sa fare. Sa fare tante cose ma il caffè no. Eppure non è difficile, basta versare l’acqua nella moka fino a farne uscire un goccio dai buchini, riempire di caffè e avvitare. Quando borbotta è il momento di spegnere e se per caso sei in un’altra stanza al massimo trabocca e ti tocca pulire i fornelli. Pace.

“Come la vedi l’Inter?” – mi chiede mio padre.
E’ arrivato il momento dei discorsi seri.
“Non bene. Anzi male. Abbiamo perso tutta l’estate dietro a Mancini che quando ha visto tirare una brutta aria ha cercato di farsi esonerare così da prendere la buona uscita. Ma ci si può lamentare del mancato acquisto di Yaya Tourè?”.
Al Mancio voglio bene, sia chiaro, ci ha fatto vincere tanto, ma per me resta un sopravvalutato. Da calciatore ha ottenuto meno di quanto meritasse ma da allenatore ha vinto di più rispetto alle sue qualità.

“Detto questo, non credo che in Italia la proprietà straniera possa funzionare”.
Come disse Arrigo Sacchi il calcio è la cosa più importante delle cose meno importanti, il tifoso italiano vive la passione per la propria squadra in maniera viscerale, pensando di poter incontrare il Presidente al ristorante e scambiare due parole come fosse un Alberto Sordi del Borgorosso qualsiasi.
Per il tifoso il bar migliore è quello con la Gazzetta libera, non quello con le brioches migliori.

Meglio non pensare al sistema di scatole cinesi col quale Thoir avrà aggiustato le casse nerazzurre, il formaggio era buono, la marmellata pure, perché ostacolare la digestione? La cosa peggiore è che l’ormai ex presidente indonesiano, pur senza ottenere alcun successo, ci avrà pure guadagnato.
Il contemporaneo interessamento dei cinesi alle squadre mi Milano mi fa riflettere senza trovare una spiegazione.

“Non c’è da stupirsi, ormai si comprano tutto, pure il bar in piazza!”.
A inizio agosto, tra l’afa e il conto alla rovescia verso le ferie, il parallelismo di Selina tra le squadre di Milano e il baretto sotto casa suscita una risata nevrotica in me e Matteo. E’ un commento genuino, divertente e maledettamente vero ma a casa di Vincenzo, padre per vocazione e sommelier per scelta, la riflessione è più profonda.
Mentre versiamo il caffè ricordiamo come negli Stati Uniti non si siano mai appassionati al calcio, nonostante i dollari spesi negli anni ’70 per portare Beckenbauer, Pelè e Crujiff a giocare sui campi sintetici del football americano. Nel ’94 trattarono un uomo come mercanzia ma non bastò nemmeno il Pibe per vendere il prodotto. E dire che di marketing se ne intendono quasi quanto di democrazia esportata a suon di bombe.
Adesso oltreoceano arrivano barbuti dai piedi fini quanto rallentati.
Per la Fifa sarebbe un affare colossale esportare il calcio negli States ma non è uno sport televisivo. O almeno non per le loro trasmissioni, inframmezzate da time out utili a vendere uno snack più che a sistemare la difesa; e poi faticare 90 minuti senza vedere un gol non è in linea con lo show business a stelle e strisce. E alla fine hanno ragione perché se anche se venisse Lebron James all’Armani Jeans io preferirei l’anticipo di serie B Latina-Spezia.

Riguardo alla Cina il discorso è differente. I nostri ultras manifestarono il dissenso verso l’anticipo delle 12.30, pensato su misura per il prime time asiatico e il conseguente giro di scommesse, sventolando piatti di carta in curva ma non basta a giustificare l’interesse verso il nostro campionato.
Il loro livello tecnico stenta a decollare mentre i lavoratori iniziano timidamente a uscire dal Medioevo di diritti nel quale sono cresciuti e il pil, seppur in calo, ha percentuali spaventosamente alte rispetto al nostro.
C’è una sorta di potere d’acquisto in crescita per l’uomo comune. E se l’uomo comune prima o poi avesse dei soldi da spendere nel tempo libero? Perché non farlo in uno svago come il calcio? Non il nostro, sempre meno spettacolare, non quello inglese, dove con gli slot sono pieni, e nemmeno quello spagnolo o tedesco, ancora legati al sistema dei soci-tifosi.

Il loro calcio.

Nel 2013 Marcello Lippi ha portato il Guangzhou Evergrande alla conquista della Champions League asiatica mentre la nazionale ha rimediato solo una magra figura nel Mondiale nippo-coreano del 2002; sono solo 800.000 i tesserati e un milione e mezzo i cittadini interessati al calcio ma sono un miliardo e trecento milioni. Un miliardo e trecento milioni.
L’Islanda, grazie a un progetto spalmato in dieci anni, è diventata competitiva a livello europeo nonostante 300.000 abitanti.

All’ombra della grande muraglia, nonostante tutto, c’è ancora un regime. Pensate al padre di Wu Minxia, che ha nascosto alla figlia il cancro della madre e la morte dei nonni per evitarle distrazioni: “Sappiamo ormai da tempo che ormai nostra figlia non ci appartiene più”.
E’ stato doloroso per l’uomo mentire al telefono alla ragazza, impegnata negli allenamenti in un centro sportivo governativo lontano da casa, ma così è arrivata la terza medaglia d’oro olimpica nei tuffi.
A confronto la decisione del Presidente Xi Jinping di imporre il calcio come materia obbligatoria in ventimila scuole è un passito di Pantelleria.

Perché dovrebbero limitarsi a far appassionare il pubblico a campionati giocati a orari impossibili per le televisioni? Perché dovrebbero continuare a far arricchire solo i club europei col merchandising? Se soltanto la cintura di Shangai dovesse appassionarsi al giocattolo i nostri diritti televisivi a confronto diventerebbero ridicoli.

Io e il mio vecchio siamo totalmente sobri quando il confronto si sposta sul curioso ruolo del governo cinese nell’acquisizione del Milan. Silvio Berlusconi, del quale vorrei dire tutto il male possibile, resta il presidente più vincente della storia del calcio, questo gli va riconosciuto, ed è riuscito a chiudere straordinariamente bene anche questa trattativa cedendo il 99,93% del club per 740 milioni di euro, comprendenti anche un buco da 220 milioni.
Non si tratta del capriccio di un emirato né di riciclaggio fine a sé stesso, si sono piazzati sulle rive del naviglio per capire come funziona il sistema e dalla tribuna di San Siro studieranno i segreti per esportare il modello in casa loro.

Ma l’eccellenza non s’improvvisa.
Non basta una buona lettura per scrivere La canzone dell’amore perduto e nemmeno un’adolescenza trascorsa nei vicoli di Genova. Serve essere Fabrizio De Andrè.
Ma a loro l’eccellenza non interessa. Non fanno che copiare, lo fanno maledettamente bene. E possono ancora imporre un interesse, lo fanno maledettamente e basta.

Mentre noi stiamo svendendo tutto, anche il bar sotto casa.




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