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LA VOGLIA DI STARE INSIEME

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Un po’ li invidio quelli che non amano il calcio. O meglio che non sono malati, perché nel mio caso siamo ben oltre la passione, si parla di patologia. Si saranno svegliati come una domenica mattina qualsiasi, senza quella apatia che mi annodava lo stomaco la sera prima di tornare a scuola.
Perché diciamolo, quando la nazionale gioca queste manifestazioni è tutto diverso. Dieci ore in ufficio pesano meno sapendo che alla sera scendono in campo gli azzurri o se c’è una partita che condiziona l’accoppiamento coi nostri. E quando veniamo eliminati è un po’ come se finissero le vacanze.
Dieci ore in ufficio da oggi peseranno di più anche se le ferie, quelle vere, sono più vicine.

Chi non è stato contagiato dal calcio avrà preso sul ridere la buffa rincorsa di Zaza o il gesto arrogante di Pellè. Come mia moglie per esempio, che sta al calcio come Messner a un aperitivo al Papete. “Chi sono?” – mi ha chiesto mentre imitava i saltelli di Zaza. Mi ha strappato un sorriso, santa donna, prima che tornasse quel vuoto dei primi di settembre quando i baci e le uscite in bicicletta al tramonto lasciavano spazio alle telefonate ai compagni più diligenti: “Mi passi i compiti di mate?”.

Sono andato in ritiro anch’io questo week end. Ho visto ogni partita in una situazione diversa e quindi, anche un po’ per scaramanzia, mi sembrava giusto cambiare. Sono andato fuori città, in una casa in campagna dei miei nonni, rinunciando a una notte al rifugio con amici perché non avrei mai accettato di perdermi questa partita. L’esordio l’ho seguito al fianco di mio padre, mentre Eder piegava la Svezia ero al lavoro, ho accolto con distacco la sconfitta contro l’Eire mentre Cinzia si è addormentata sul divano. Contro la Spagna ho sofferto da solo dopo una folle pedalata verso casa. Finita la partita l’adrenalina mi è scesa solo grazie a una doccia fredda e alla sera ho ripercorso la vittoria con Fabio gufando gli inglesi.

“Noi chi siamo?”
“Gli azzurri”
“Quindi segniamo a…”
“Sinistra”
Ma alla fine era tesa pure lei.

Li invidio quelli che non seguono il calcio. Oggi avranno trascorso una domenica come le altre mentre io mi chiudevo in camera aspettando il suono della prima campanella. Però non sanno cosa vuol dire poter tornare ragazzi, come quando nel ’98 preparammo gli striscioni per seguire le partite in oratorio. O come quando con le mani in tasca giochicchiavo con le chiavi della Panda pregustando i caroselli prima del sinistro di Wiltord. Non conoscono la sensazione di rivivere i calci di rigore di Amsterdam nel 2000. Non sanno che si può tornare ragazzini davvero, non solo con la mente. Non sanno che, nonostante la barba e i pochi capelli, quando gioca la Nazionale torniamo gli stessi che si telefonavano il sabato dopo pranzo per scambiarsi la formazione del fantacalcio.
“Pronto”
“Ciao Gae sono Sergio!”
“Ah ciao sono Pier, te lo passo”.
Hanno sempre avuto la stessa voce al telefono lui e sui fratello.
“Ci sei? Inizio io?”.
“Aspetta che prendo la penna. Ok”.
“Taglialatela, Sensini, Carboni…”.

“I rigori non li ho visti. Ero troppo nervoso. Me ne sono andato in balcone e sentivo la gente urlare”. Io e Antonio ne abbiamo passate tante. Da quando ci telefonammo emozionati dopo un servizio di Dribbling prima dello spareggio contro la Russia per andare ai Mondiali  (“Oh stasera è dura” – “Sì, sono emozionato”) alle trasferte a Berna e Zurigo con Maio e Butcher nel 2008. 1200 chilometri per vedere in gol di Panucci a 120 metri. Vedemmo anche il rigore di Mutu parato da Buffon. Quello sotto i nostri occhi. Ci tenne a galla, come ieri sera prima delle lacrime.
Meglio una serata da Buffon che una carriera da Neuer e spiegategli pure al tedescone che se non vince il Pallone d’Oro non è perché ci sono Messi e Cristiano Ronaldo ma perché prima di lui ce ne sono stati almeno dieci più forti. Ditegli anche che non serve parare come un portiere di pallamano per farsi notare, né giocare la palla coi piedi come Sandro Nesta se poi rinvii addosso all’arbitro. Maledetto Guardiolismo.

Cerco di riprendermi dopo il caffè. Ehi, era solo un quarto di finale. Chi ti dice che saremmo arrivati in fondo? E’ solo un gioco. In fondo tu, non vinci niente”. Poi mi imbatto nell’intervista di Barzagli: “Un’immensa delusione perché abbiamo veramente dato tutto. Purtroppo rimane la sconfitta. Di tutto quello che abbiamo fatto di bello purtroppo non rimarrà niente perché quando esci…”

E poi piange

“E quindi niente, rimane solo la delusione e il fatto che poi alla fine dopo qualche anno nessuno si ricorderà più di niente. Una Nazionale che ha dato tutto. Dispiace”. Trentacinque anni, cinque Scudetti e un Mondiale in bacheca. Niente da dimostrare. Poi sette parole: “C’era veramente voglia di stare insieme” e capisco il motivo dello stomaco annodato, dell’amarezza, dello stare bene coi miei amici come quando eravamo ragazzi, anche se eravamo ragazzi quindici anni fa.
Io e Ciccio abbiamo condiviso lo spogliatoio oltre che l’adolescenza, conosciamo il significato di quelle sei parole. “Ho pianto pure io” mi ha scritto, anche se la sua donna capirà di calcio quanto la mia. E me lo vedo, con la testa fra le mani mentre la bimba è già a nanna. Ci sentiamo per un attimo Barzagli e Barzagli per un attimo è come noi.
Puoi essere un maestro con la penna, uno stratega della tattica, ma sei hai fatto parte di un gruppo, se ti sei sentito veramente parte di un gruppo, a qualsiasi livello, quando lo perdi ti mancherà. Nessuno ti ridarà le cene coi compagni, gli scherzi durante il riscaldamento, le battute mentre ti cambi. A me mancano. Anche a Ciccio lo so. E non solo a lui. Gli ingaggi, le donne, Formentera e il successo non contano più. Quelle parole le può capire solo chi ha vissuto uno spogliatoio.

Ogni volta è così, torna l’estate del ’90 quando guardavo la cerimonia di inaugurazione sul divano coi miei genitori e seguimmo le partite in vacanza. Ogni volta c’è un Omam-Biyik pronto a piegare un Davide, un’estate del ’96 con Zola che si fa parare il rigore e la Fede che dopo un minuto ci chiede “Ma l’ha sbagliato?”. A volte c’è una Corea, altre si rosica per un biscotto indigesto, quasi sempre si torna a sognare una cavalcata come dieci anni fa ma amando questo gioco, se vogliamo chiamarlo così, so che ogni estate tornerò il ragazzino che si inventò un quiz con gli amici di sempre per ammazzare afa e zanzare. Ci bastò un almanacco per giocare ore e ore a “Sapere il calcio” e dimenticarsi di tutto. E forse ci basterebbe ancora. Nonostante i problemi.

Fatti, luoghi e persone non sono puramente casuali. Chi mi conosce starà annuendo con un sorriso, chi ho citato avrà interrotto la lettura con un “E’ vero” ma sotto sotto, se al posto dei miei amici mettete i vostri, rivivrete gli stessi momenti e sarete d’accordo con me. Da Catania a Trento.

Non mi ero portato il computer nel mio ritiro, non pensavo di averne bisogno. Mi sbagliavo, come sempre quando si tratta di calcio. E degli Azzurri soprattutto. Mi sbagliavo, come sempre quando si tratta di estate. Così ho preso una penna e un foglio come al Liceo ma non l’ho piegato a metà per le correzioni.

Non c’è niente da cambiare.

A parte quei maledetti rigori.




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