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SAPESSI COM’E’ STRANO

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“Scusa se non ti ho aspettato. Ho chiesto a Stefano se sapevi la strada e mi ha risposto di sì”.
“Ma figurati, non ti preoccupare, tanto poi ti sei fermato. Comunque avevo inserito l’indirizzo nel navigatore”.

Più o meno è andata così.
A scusarsi per aver sfruttato troppi cavalli della sua Ferrari, è Sulley Ali Muntari, ghanese, 32 anni, una FA Cup col Portsmouth ma soprattutto due Scudetti, una Supercoppa Italiana, due Coppe Italia, una Coppa Intercontinentale e una Champions League.
Tutte con l’Inter che forse non sarà la squadra del suo cuore ma lo è del mio e di conseguenza, essendo uno degli artefici del triplete, ha un posticino nella galleria dei ricordi impossibili da sbiadire.
Cosa ci facciamo accovacciati a bordo campo? Facciamo un passo indietro.

Nell’ultima stagione ha giocato nell’Al-Itthiad, che in bacheca vanta otto campionati e due Champions League asiatiche ma a Gedda, porto saudita sul Mar Rosso, è rimasto un solo anno. Troppo forte la voglia di tornare nel calcio che conta e, chissà, di difendere i colori della sua nazionale al Mondiale russo del 2018.
Stefano, il passeggero della Ferrari che incautamente gli ha confessato di avermi spiegato la strada, è un mio amico oltre che il suo preparatore atletico. Lo segue dalla difficile esperienza araba e adesso, mentre aspetta una chiamata per la prossima finestra di mercato, lo allena a Milano e ogni tanto lo coinvolge in qualche partitella tra amici. Non ex giocatori, gli amici che prenotano l’ora fissa per spezzare la routine settimanale e tra una birra e l’altra ripescano gli aneddoti.
“Dai se ricapita te lo dico così vieni anche tu” – le classiche frasi che si dicono…e invece.

Avrei voluto chiedergli cosa si prova a entrare a mezz’ora dalla fine al Camp Nou per difendere un fortino attaccato da Messi e 80.000 catalani sugli spalti. Avrei voluto confidargli che mentre difendeva eroicamente quel fortino io ero in ginocchio a un palmo dal televisore. Avrei voluto dirgli che i tifosi dimenticano ma io no.
Volevo chiedergli quante volte ha ripensato alla mano di Suarez e quei maledetti rigori contro l’Uruguay e cos’ha provato la notte del 22 maggio 2010 a Madrid mentre nell’intervallo della finale io cercavo serenità guardando le lucciole.
Avrei voluto fargli sapere che quando l’Inter lo prese nell’estate del 2008 pensai subito fosse un buon acquisto e infatti segnò all’esordio.
Avrei voluto dirgli questo e tanto altro ma mi sono limitato a un imbarazzato: “Possiamo fare una foto?” click over here now.

Avrei voluto chiedergli qual è stato il suo compagno più forte e l’avversario più difficile da contrastare, l’allenatore migliore e il momento più importante della sua carriera. Avrei voluto chiedergli tutto questo ma non sono andato al di là di un: “Mi fai un autografo sulla maglia?” – e mentre gli porgevo il pennarello mi sono sentito tremendamente piccolo.
Non avrebbe mai risposto a tutte quelle domande nonostante l’umiltà che una sera l’ha portato a giocare con me, Stefano, Lollo, Gabry e Gianni.

Mi sono chiesto perché mai l’abbia fatto. “Ha una passione incredibile, una voglia di giocare che non puoi capire” – mi ha risposto Stefano.
Lo posso capire. Eccome se lo posso capire. E’ la stessa che mi spinse in acqua a macinare vasche e a farmi iniettare ozono nella schiena per contenere un’ernia con la speranza di tornare in campo.
Quello che non riesco a capire è come ha fatto a non innervosirsi per i nostri lanci improbabili, i passaggi sbagliati, le finte moviolistiche e i tiri in porta velleitari.
Passione. Non c’è altro che la passione a giustificare tutto questo. E umiltà.

Fantastichiamo sui loro attici lussuosi, ignorando che non possono più tornare nel ristorante dove una sera hanno aiutato con una mancia generosa i bambini che li guardavano dalla vetrina col naso all’insù. Non possono più tornare semplicemente perché ogni sera ci sono troppi ragazzini ad aspettarli fuori dal locale.
Li aspettiamo al campo per immortalare la nostra faccia vicino alla loro icona in un selfie eppure l’altra sera uno di loro, dopo l’ennesimo gol subito, mi ha preso per un braccio dicendo: “Tu vai avanti che sei bravo coi piedi”.
Io, che in quel contesto per Sulley Muntari sono bravo coi piedi, nel palmares ho una promozione dalla Terza alla Seconda Categoria e una dalla Seconda alla Prima. Lui, che in quel contesto non può esprimersi come potrebbe, ha vinto tutto quello che c’era da vincere contribuendo al nirvana nerazzurro.
Inoltre è un vero musulmano, non conosce alcol quindi bravo coi piedi non può averlo detto da ubriaco.

Le ultime tre settimane in cantiere mi hanno fatto bene allo spirito ma meno al fiato e dopo dieci minuti sono in totale apnea con le gambe lignee.
Siamo fianco a fianco, appoggio palla, a volte me la scarica, gli chiamo l’uomo, con un gesto invita i compagni a inserirsi, chiede persino scusa per un passaggio sbagliato.
A un certo punto, stanco di veder la nostra squadra a zero gol, carica il sinistro e vedo la palla insaccarsi a fil di palo, ne immagino la traiettoria ma la velocità è troppo alta per distinguere ogni fotogramma. In quel momento, forse per la prima volta, mi rendo veramente conto della distanza siderale che separa un atleta di quel livello da chi portava le scarpe dal calzolaio. Il mio forte è il suo piano, il mio scatto è il suo allungo; calcia solo dopo essersi assicurato di non aver di fronte qualcuno perché con una pallonata potrebbe spappolare una milza.

Mi rimarrà il ricordo dei gesti affettuosi con la figlia dei miei amici e la discreta stretta di mano a mia moglie che tornando a casa mi ha chiesto quale sia stata l’emozione.
Non lo so, la devo ancora digerire. O forse non la metabolizzerò mai. Mi è rimasto sul palato il sapore indecifrabile di aver condiviso la passione più grande con un giocatore che ha contribuito a realizzare i miei sogni di tifoso e che stava per portare per la prima volta una nazionale africana alla semifinale mondiale. Me lo ricordo quel sinistro velenoso alle spalle di Muslera. Peccato.

Li immaginiamo spacconi e arroganti, e probabilmente la maggior parte è così, poi uno di loro apre il bagagliaio della Ferrari e tira fuori il pallone appena preso per l’occasione ma, come sempre quand’eravamo piccoli, il pallone è da gonfiare.
Li giudichiamo viziati e ignoranti senza averci mai parlato e mentre gente cammina a un metro da terra per aver giocato in Eccellenza, Muntari allunga la mano: “Piacere Sulley” – anche se non ha bisogno di presentazioni.
Li vediamo dalle gradinate della curva statuari, fieri ma soprattutto lontani, finché una sera uno di loro si mescola a terzini sgangherati come me accettando la sconfitta contro professionisti dell’aperitivo.

Li vediamo irraggiungibili e lo sono, quindi inutile far mille domande a cui non risponderebbero, meglio godersi la partitella e poi alla fine, perché di calcio stiamo parlando, incazzarsi per la sconfitta.




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